Nello zaino la Bibbia, il passaporto (non si sa mai), una borraccia. Sto per incamminarmi, pellegrina nelle strade di Betlemme, per passare un po’ di tempo alla basilica della Natività, appena oltre l’albergo. Un amico, guida di Terra Santa, mi ferma. Non provare a uscire da sola. No, non perché sei giovane. È perché sei una donna. Legati i capelli, altrimenti fai una brutta fine. Non guardare in faccia gli uomini, non rispondere ai loro fischi. Lo guardo allibita, ma il suo volto non scherza, è seriamente in apprensione. E io, ragazza italiana e abituata ai miei lunghi giri in solitaria, divento per un attimo una donna in un mondo arabo. Un macigno sul cuore.
In quello stesso giorno, durante l’incontro con gente del posto, le donne palestinesi ci snocciolano la loro quotidianità: si esce solo accompagnate dal padre, dal marito o dal fratello. La famiglia controlla, e tu non sei nulla, a te il compito di rannicchiarti nell’angolo, al posto tuo. Prestare il tuo corpo all’abuso fin da giovane, finché non darai figli maschi a tuo marito (tra le donne incontro ragazze poco più grandi di me, di 24 anni, con più di 15 figli). Accettare l’oppressione. Tutto qui. Quella sera, dopo questo bagno di realtà, poche ragazze riescono a dormire. Ci troviamo nella sala comune dell’hotel, affrontiamo il macigno. Sui nostri volti, rabbia, fastidio, nausea per un mondo così reale e così estraneo a noi, insieme a una consapevolezza che ci accompagnerà per ancora molto tempo. È la responsabilità che ci viene dal dono di essere libere. Di poter alzare gli occhi, guardando il cielo, scegliendo strade e cammini, facendo progetti luminosi. Libertà, che è dono e missione. Dono riscoperto, missione tutta da vivere, educare, e far conoscere.
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