Tutto è bene quel che inizia bene
Ogni storia che si rispetti ruota attorno a un “prima” e un “dopo”. Questo vale per un film che voglia definirsi avvincente, uno spettacolo capace di tenere sospesa una platea, un testo che faccia sbirciare frettolosamente le dita nelle pagine successive: esiste sempre un punto, felice o drammatico, che smuove il quieto vivere del racconto, un inatteso che scompiglia l’ordinario e lo rende stra-ordinario. In teoria della letteratura questo ha un nome preciso, ed è quello che Vladimir Propp (tra i più grandi studiosi della fiaba russa) chiamava esordio: l’esordio è, a tutti gli effetti, il vero grande inizio della storia, il suo primo battito, da cui i personaggi prendono vita. Dall’esordio in poi, il giovane diventa l’eroe della storia, l’amico il più prezioso aiutante, il danno subìto diventa la traccia da seguire e il desiderio la meta. Senza questo evento eccezionale, il racconto non sembra destinato ad avviarsi e noi, spettatori impazienti, ci alzeremmo presto annoiati, rimpiangendo i soldi del biglietto. O, forse, così avremmo pensato fino a poco tempo fa.
Perfect days: un’eccezione alla regola?
La vita di Hirayama sembra, in fondo, una vicenda senza esordio. Il protagonista di Perfect Days, l’ultimo film di Wim Wenders diffuso in Italia i primi di gennaio, è un uomo di mezza età, giapponese, addetto alla pulizia dei bagni pubblici della città di Tokyo: di lui lo spettatore conosce poco o nulla, poche informazioni riguardo a un “prima” – un passato a cui si allude ma che non è mai rivelato – e nulla che lasci intravedere un “dopo”, che lo faccia uscire dalla routine di lavoro e relazioni che si è costruito. Eppure, proprio questa trama di giorni tutti uguali – che si ripetono per più di due ore di film senza colpi di scena o effetti speciali – è ciò che ha incantato il pubblico, sorpreso e disarmato dalla semplicità di questa vita normale: innaffiare le piante e incontrare gli amici al bar diventano istantanee di giorni perfetti, in cui la storia di Hirayama non esordisce mai, ma continua a scorrere, senza nulla di eccezionale. Come eroe parla pochissimo, ma osserva molto, ascolta tutto e inaspettatamente buca lo schermo – o, direbbe Pirandello, «strappa il cielo di carta» della finzione. Lo straordinario è finito, sembra dirci: vivete in pace.
La vita in un giorno
Ma che storia è mai questa, in cui l’eroe semplicemente si alza, va al lavoro, cena e dorme? Forse un’alternativa ai soliti film d’azione, una prova di resistenza per un pubblico sempre più intollerante alla lentezza. O forse c’è una sapienza da cogliere più in profondità, al cuore di questi racconti “normali”: è la stessa che avevano intuito i registi Ridley Scott e Kevin MacDonald quando, nel 2010, avevano sfidato la loro community di YouTube a prendere parte a un docufilm unico, proprio perché protagonisti sarebbero stati loro: uomini e donne senza nulla di eccezionale. Le indicazioni erano semplici: bastava una qualsiasi telecamera per riprendere un’istantanea di un giorno qualunque (scelta ricaduta sul 25 luglio). Dei quasi 80.000 video raccolti nasce La vita in un giorno (Life in a Day), in cui si raccolgono le storie di eroi improbabili, con nulla in comune e ben poco di straordinario: chi si riprende dal grattacielo di Tokyo e chi da una capanna in Perù, tutti però il 25 luglio si alzano, fanno colazione, si trascinano in una stancante routine, condividono timori, desideri, collezionano oggetti inutili nelle tasche. Un secondo invito arriva dieci anni dopo, il 25 luglio 2020, e in una quotidianità ferita dal Covid parlano altri uomini e donne, con vite diverse eppure tanto simili: eroi, anche in questo caso, perfettamente normali, la cui più grande avventura sono le ore da riempire tra l’alba e il tramonto, in un continuo oggi.
L’impresa eccezionale è essere normale
Che cosa ci sta provando a dire, allora, il grande schermo – con il successo di Perfect Days – e il piccolo schermo – quello di migliaia di persone riprese in un giorno (e ogni giorno: pensiamo ai social)? Non certo che è finito il tempo dei racconti eccezionali e rocamboleschi: lo straordinario ci attira e ci attirerà sempre. Forse, però, abbiamo anche bisogno di storie che ci raccontino quell’“intermezzo”, quando gli effetti speciali si spengono e all’eroe rimane il quieto – e un po’ noioso – vivere: abbiamo bisogno di comprendere che, anche nella sua ripetizione, c’è una vita che continua a nascere e i suoi protagonisti a cambiare ogni giorno, sempre di più. E sarà in questi giorni, perfettamente normali, che si compirà la grande impresa, quella vera, per cui non serve essere eroi.
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