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Cultura

L’altro che salva

L'incontro con l'altro, con il differente, salva e fa crescere
Foto di moren hsu su Unsplash

Nei miei anni di studio a Friburgo o a Parigi capitava spesso di trovarsi di fronte ad un bivio, ad una difficoltà, per scegliere un argomento, una materia, un indirizzo… Avevo persone amiche accanto per dirmi «fai come ti senti!», «fa’ quello che ti pare meglio»… Quale dannosa terapia! Si era portati a prendere la via più breve, il percorso più piacevole o il soggetto più amato. Dimenticando, così, quella massima della saggezza orientale: «di fronte a un bivio con una via in discesa e in salita, scegli sempre la via in salita, quella più difficile. Ti terrà in all’erta. Ti abituerà alla sfida. Ti farà grande».
In fondo, è la dinamica del consenso. Dell’essere consenziente, compiacente. In realtà, si rivela ben poco educativa. E questo, per il padre con il figlio, l‘insegnante con lo studente o il politico con l’elettore. Ci si ricorda ancora del presidente Reagan che chiedeva al suo staff prima di incontrare un grosso pubblico di agricoltori: «ma che cosa hanno piacere di sentirsi dire?». Restare chiusi, così, nel cerchio magico della compiacenza si rivela malsano.
Fondamentale si scopre il confronto con l’alterità, con chi è differente o porta un altro sguardo. Darà un punto di vista diverso. Questo sì che stimola, interpella e fa crescere. Semmai, nelle vostre stesse convinzioni. Perché «se qualcuno vuole aiutarvi – ricordava un vecchio professore – e vi trovate in un pozzo, non dovrà cadervi anche lui, per piangere insieme. Dovrà restarne fuori, ai bordi, per potervi tirare su». Elementare: essere altro. In fondo, in termini medici e seguendo l’attualità è il lavoro di un vaccino: inoculandovi nel corpo l’alterità di un morbo, vi stimola a produrre energie nuove per affrontare qualsiasi situazione.
Restare nella logica dell’identità, di un mondo conosciuto, di persone o un universo di cui ci si sente conoscitori perfetti ci rende più sicuri. Ci rassicura. Ci solidifica. Ma non ci farà avanzare. Sarà l’altro e la sua alterità che ci stimolerà ad uscire da noi stessi, dal nostro mondo.
Come per la signora R, ex insegnante elementare, di un quartiere a Rovigo. I suoi punti di interesse sono tre: la chiesa (sempre meno), il negozio di alimentari e la sua casa. Nessuna variante. Vive chiusa con il marito, lui sempre davanti alla TV. Due sono i loro giovani figli, uno, organista in Svizzera, un altro da qualche anno negli Stati Uniti. Le loro continue suppliche di mettersi in viaggio per vedere i nipotini sono sempre state vane. A volte, anzi, la senti maledire di aver avuto dei figli «perduti così lontano», nonostante le loro brevi apparizioni. Sì, hanno frantumato la «logica dell’identità». Il senso antico del nido. A differenza di lei, hanno sposato l’alterità.
Per l’incontro con l’altro, il differente, l’emigrazione ne è un esempio quotidiano, formidabile. Paradigmatico. Mi sembra ancora di sentire nell’aria il prof. Verspieren a Friburgo martellarci in testa, un tempo: «fahren, erfahren». Per dire che in tedesco il termine «esperienza» (di una persona) deriva dalla radice «viaggiare», cioè dalla capacità di uscire dall’io, dal proprio habitat. Di incontrare un altro mondo.
Lo constato a Casablanca con gli adolescenti emigrati da poverissimi villaggi subsahariani, che arrivano in parrocchia dopo un viaggio infinito e massacrante tra Mali, Algeria e Marocco. Perfino i loro tratti del volto sono cambiati: più duri, grintosi, energici. Hanno perso la dolcezza dell’adolescente. Diventati adulti troppo presto, per aver affrontato imprevisti, umiliazioni, violenze del viaggiare. L’alterità del mondo con le sue imboscate li ha trasformati. E sono tratti che ritrovi, in fondo, nell’esistenza di ogni emigrante, di chi cambia contesto, e dovrà continuamente misurarsi con l’alterità. L’animus di un combattente. Perché catapultato in un altro mondo. Ma «le anime più forti sono temprate dalla sofferenza, i caratteri più solidi sono cosparsi di cicatrici», annotava Kalil Gibran.
L’alterità di un altro volto, di un’altra cultura, di un punto diverso di vista… ricorda che la complessità fa parte della vita. La differenza dell’altro, poi, è generatrice di senso. Rivela il valore che si possiede e arricchisce di quello che si incontra. Ti rinnova. «Se accetti di uscire dal recinto, accadono cose straordinarie», commentava Piero Angela.
Vivere di consenso o di compiacenza, insomma, è il cane che si morde la coda. È il cortocircuito della «logica dell’identico». L’incontro con l’alterità apre ipotesi, possibilità, processi e orizzonti… Porta ad uscire dai binari del «sempre fatto così». Anche se il confronto con punti di vista differenti sarà più laborioso e complicato, si rivela, in fondo, più fecondo.
E renderà noi stessi differenti. Perché «quando perdiamo il diritto di essere differenti – scrive Charles Evans Hugues – perdiamo il privilegio di essere liberi».

Preso, per concessione dell’Autore, dal blog Madrugada

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Renato Zilio

Missionario Scalabriniano a Casablanca (Marocco)

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