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Il caporalato nelle campagne italiane: un esempio di neoschiavismo

Il caporalato in Italia è ancora un problema sociale ben presente

Nonostante la schiavitù sia attualmente ritenuta un istituto abolito praticamente dappertutto e da oltre un secolo, in verità ancora oggi persistono fenomeni all’interno del mondo del lavoro che neanche troppo indirettamente rimandano allo schiavismo. Sono vari gli esempi che possono essere proposti in merito alle forme di neoschiavismo che caratterizzano differenti aree del pianeta. Ci concentriamo oggi su quelli che fanno capo alla dinamica per la quale ai migranti stranieri che giungono nei paesi di vecchia industrializzazione vengono assegnati lavori molto pesanti, poco retribuiti e a condizioni che nessun autoctono accetterebbe. Parliamo del caporalato nelle campagne italiane.

Le caratteristiche del fenomeno

Gran parte – se non tutto – di quello che oggi si sa sul fenomeno del caporalato in Italia la si deve al lavoro combinato del professore Francesco Carchedi e dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil.
Ma innanzitutto, cos’è il caporalato? È una forma illegale di organizzazione della manodopera e del suo reclutamento, manodopera destinata a lavoro presso terzi e in condizione di sfruttamento. Si configura, inoltre, come un rapporto economico e produttivo con due attori: l’imprenditore e il caporale. Figura centrale di questa pratica, come ci suggerisce il nome stesso, è proprio quest’ultimo: è il mandatario dell’imprenditore e ha come compito principale quello di reclutare personale da lavoro e gestire le migrazioni stagionali di grandi masse di braccianti, che in certi periodi dell’anno si spostano dal loro luogo di residenza, anche di molti chilometri, in cerca di un’attività. In base al grado di condivisione e di codecisione che stabiliscono o non stabiliscono con le rispettive squadre di braccianti e con gruppi e sottogruppi di lavoratori che le compongono, i caporali possono essere di quattro tipi. A questi diversi tipi fanno da contraltare altrettanti tipi di aziende.
Nei primi due il caporale, adoperandosi per scegliere membri di una squadra compatta e coesa, è semplicemente un primo tra pari. La sola differenza è che in un caso i braccianti, pur ingaggiati inizialmente in modo illegale, vengono regolarmente contrattualizzati, mentre nell’altro i rapporti di lavoro rimangono contra legem. Negli ultimi due tipi il caporale mette in piedi delle vere e proprie contro-squadre, cioè formate da membri che non stanno sullo stesso piano: questa volta la discriminante sta nel fatto che esso può assumere un carattere strettamente dirigista e creare un regime fortemente gerarchico o essere colluso o membro di organizzazioni mafiose, che mantengono importanti poteri di gestione della manodopera.

Uno sviluppo recente

È soprattutto a partire dalla liberalizzazione del mercato avviata in Italia con la legge Biagi del 2003 che gli imprenditori si sono ritrovati con un aumentato potere tra le mani. Come effetto collaterale, tutto ciò ha favorito il caporalato.
Contestualmente si è verificato un ricambio etnico dei lavoratori agricoli, dal momento che i braccianti più anziani non sono stati sostituiti da giovani italiani, ma da migranti provenienti perlopiù da Africa ed Europa orientale. E infatti attualmente circa un terzo dei lavoratori impiegati nel settore primario è di nazionalità straniera; questi sono anche desindacalizzati, scelti dalle agenzie interinali private e non dai pubblici centri per l’impiego e, di conseguenza, maggiormente sfruttabili e sfruttati. Tuttavia il caso di Paola Clemente, morta di fatica sui campi nel 2015, attesta come anche gli stessi italiani possano trovarsi nella medesima situazione. Non a caso, l’anno successivo è stata varata una legge che attribuisce all’imprenditore la responsabilità dell’ingaggio del caporale e della manodopera. Essa rappresentava da subito un grande passo in avanti nella lotta contro il caporalato e a otto anni di distanza, pur non avendo azzerato le pratiche di sfruttamento, ha potenziato la Rete del lavoro agricolo di qualità, che enumera le imprese agricole che si distinguono per il rispetto delle norme in materia di lavoro, legislazione sociale, imposte sui redditi e sul valore aggiunto.

Possibili soluzioni e reali impedimenti

La migliore soluzione al problema del caporalato per diversi studiosi consisterebbe nell’accorciare la filiera agricola e nel contrastare il ruolo distorto della grande distribuzione organizzata, ma essa non è facilmente praticabile, specialmente in aree come il meridione italiano. Attualmente la filiera agricola è composta da cinque fasi distinte: produzione, immagazzinamento, trasporto, confezionamento e commercializzazione.
La fase di produzione è quella che utilizza meno i criteri capitalistici e per questo il potere contrattuale dei braccianti è quasi nullo. Poiché difficilmente sullo stesso territorio si trovano tutte e cinque le fasi del processo produttivo – nel già citato Sud dell’Italia infatti non sono presenti le fasi di confezionamento e commercializzazione -, sono poche aziende medio-grandi, e non quelle a conduzione familiare, che fissano il costo orario del lavoro, il quale, essendo solitamente molto più basso dei sei euro netti l’ora previsti a livello nazionale, genera le forme di sfruttamento. Nei casi in cui i braccianti si ribellino a questa condizione, subiscono presto le violenze repressive dei caporali. Non si deve comunque pensare, come avviene comunemente, che il caporalato sia esclusivo del Mezzogiorno, poiché si rintraccia anche nell’Italia settentrionale e in altri stati europei, con delle differenze relative al clima e alla qualità dei prodotti. Si lega indissolubilmente a un contributo indiretto delle multinazionali attraverso il land grabbing, un processo neocoloniale di acquisizione delle terre, principalmente in Africa, senza il consenso delle comunità che vi abitano, che chiaramente incentiva le migrazioni.
In sintesi si deduce che lo schiavismo moderno è dovuto alla potenza tipica delle grandi imprese, soprattutto multinazionali, ed è alimentato dalla presenza di lavoratori meno tutelati rispetto al passato. Spesso si tratta di stranieri extracomunitari, che non hanno mezzi e forza per ribellarsi a questo sistema e ai quali pertanto deve essere riservata un’attenzione particolare attraverso una legislazione adeguata.

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Lorenzo Nudo

Nato nel 2003, originario della città di Crotone, ora studio alla facoltà di Scienze Politiche all’Università di Rende. Suonare la chitarra è uno dei miei passatempi preferiti, similmente alla lettura di opere classiche, anche di letterature straniere, di romanzi e di fumetti. La palestra è invece l’ambiente dove due volte a settimana o raddrizzo una giornata no oppure ne miglioro una buona. La fede in Dio mi accompagna anche quando mi immergo nei miei ambiti intellettuali preferiti: la filosofia, la storia e la politica.

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