Una semplice missione
Passandogli accanto… gli si fece vicino (Lc 10): questo il titolo per la settimana missionaria che si è tenuta all’Università della Calabria dal 13 al 17 maggio, organizzata dai padri Dehoniani. Un gruppo di volontari, tra laici e suore, si è preso il compito di fermare i ragazzi o bussare alle loro porte per dargli una notizia: «non siete soli». L’iniziativa parte per fare sapere ai giovani universitari che hanno un punto di riferimento, ovvero la cappellina che si erge a metà del ponte, in cui la mattina e il pomeriggio possono trovare sempre qualcuno disposto ad ascoltarli. Non tutti sono stati aperti al dialogo. Il loro modo di porsi, di camminare ascoltando la musica, fa capire come ci sia una chiusura al contatto con l’altro in questa nuova generazione. Si ha quasi paura delle persone, scappando via anche da quelle che hanno una parola buona. Si è notato quando una ragazza non ha voluto dire neanche come si chiamava, o da come alcuni guardavano i volontari facendo capire che non volevano in alcun modo essere disturbati, accelerando il passo e non rispondendo ai saluti gioiosi. Forse umanamente riusciamo a concentrarci soprattutto sui fallimenti, ma nonostante ci siano state molte porte chiuse in faccia, è importante pensare, invece, a chi ha ascoltato e condiviso le proprie esperienze.
Esperienze che segnano
«Apprezzo la vita perché ho visto la morte», così ha raccontato una studentessa la cui migliore amica si è suicidata buttandosi da un balcone. Questa frase, ferma ma detta con gioia, ha lasciato di sasso chi ha ascoltato la sua storia. Quello che ha colpito di questa giovane è stato il suo sorriso e la sua serenità. Difficile rispondere davanti a un’esperienza del genere. La ricchezza che ha donato la ragazza “dagli occhi felici” è qualcosa di estremamente raro e bisogna farne tesoro.
Il senso di un contatto
I racconti dei missionari sono stati diversi, caratterizzati anche dal racconto di qualche bestemmia e muso lungo da parte degli universitari. Sono interessanti però le parole di chi ha partecipato alla settimana missionaria. «Ho indossato subito la croce perché mi sentivo a mani nude, a mani vuote»: è un po’ ciò che si prova quando si sente di star facendo una cosa davvero importante e non resta altro che affidarsi per avere la forza, in questo caso, di portare consolazione e affetto a chi forse quella forza l’ha persa. Alcuni studenti sono scoppiati a piangere perché in quel momento non si sono sentiti più soli, come se il sorriso di una persona estranea fosse penetrato in un cuore chiuso da tempo.
«La missione ha portato tanta gioia nel mio cuore, perché quando si crede di poter dare qualcosa a qualcuno è proprio in quel momento che si riceve molto di più». Questa è forse la sintesi dei diversi commenti riportati dai missionari tornati a casa con il cuore aperto. Molti di loro sono genitori di studenti, altri sono stati studenti a loro volta e meglio di tutti possono capire la sofferenza dietro il viso apparentemente sereno di qualcuno che invece dentro di sé ha il vuoto. La missione, ha auspicato padre Emanuele Sgarra, dovrebbe ripetersi più volte durante l’anno per sottolineare la presenza di un porto sicuro all’interno dell’università frequentata da ragazzi che nella maggior parte dei casi sono persi tra le onde di chissà quale oceano. «È solo donando che si riceve – ha affermato padre Emanuele –, è solo prendendo a cuore la vita degli altri che salviamo la nostra; è solo offrendo che si diventa ricchi».
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