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The beautiful game: il calcio tra storia, passione e denaro

La storia e la situazione attuale del calcio tra passione e denaro.
Photo by Md Mahdi on Unsplash

Nel 2020, durante il primo lockdown, per alleviare le ore passate obbligato a casa, oltre a studiare per terminare gli studi ho potuto guardare una piccola miniserie inglese. Si chiama The English Game: da grande appassionato di calcio, mi prese sin da subito.

La serie racconta le vicende di Fergus Suter, giocatore scozzese, passato alla storia per essere stato il primo professionista. Oltre alle vicissitudini della sua vita personale, legate alle difficoltà del proletariato inglese negli anni ‘80 dell’Ottocento, la serie racconta la stagione 1882 della FA Cup, primo trofeo di calcio inglese, nonché il più antico al mondo. Nella narrazione viene sottolineato il contrasto tra le ricche squadre borghesi, in molti casi legate alle prestigiose università inglesi (come gli antagonisti degli Old Etonians, squadra formata da ex studenti di Eton), e le povere squadre proletarie, agglomerato di operai che nel calcio trova uno sfogo al duro lavoro industriale. Storia vera con lieto fine: i Blackburn Rovers vincono contro i rivali etoniani. Una piccola rivincita nei confronti della borghesia.

La vera passione

Questa storia a molti può sembrare banale, ma per un ragazzo appassionato di calcio come me ha un significato bellissimo. Essendo nato negli anni ‘90 ho potuto vedere nel nostro campionato giocatori come Del Piero, Baggio, Maldini, Nesta… Ma ho potuto vedere anche l’età d’oro della Premier League: i goal di Alan Sherer, che hanno portato una città come New Castle a sognare l’impossibile, Michael Owen e Steve Gerrard che facevano esplodere la Kop di Anfield e fra tutti l’Arsenal degli invincibles, condito di campioni come Sol Campbell, Robert Pirés, Patrick Viera, e il leggendario Thierry Henry, il quale oggi è giustamente immortalato con una statua davanti allo stadio dell’Arsenal. Il calcio inglese che ho potuto vedere crescendo, quello rinato dopo la tragedia dell’Heysel e la severa punizione impartita agli hooligans, era un calcio romantico fatto di grandi giocatori che si legavano a una maglia e a una tifoseria e in cambio ricevevano un amore incondizionato. Molti di questi giocatori, nati e cresciuti nelle città dove hanno giocato, sono leggende per i loro club: tifosi prima e giocatori poi.

Ma è proprio il campionato più romantico del mondo che ha poi aperto la porta al denaro degli sceicchi. Nel 1992 l’allora First division inglese si staccò dalla FA, federazione di calcio inglese, per creare la Premier League. La scelta era legata a motivi economici. L’indipendenza dalla federazione permise alla serie A inglese di elevarsi e, grazie alle già citate vicende calcistiche, attirare investitori. Fu proprio l’Arsenal degli invincibili a ottenere per prima una sponsorizzazione: nel 2004 la squadra londinese firmò un contratto con Emirates. Oltre allo sponsor sulla maglia, l’Arsenal accettò di farsi finanziare il nuovo stadio; dal leggendario Highbury passò a giocare all’Emirates Stadium. L’accordo di sponsorizzazione venne successivamente prolungato e maggiorato più volte fino al 2019.

Il calcio è davvero dei tifosi?

Nel 2008 vi fu l’evento più importante. Il Manchester City, squadra storica ma ormai militante nella metà classifica, fu acquistata dall’Abu Dhabi United Group. L’investimento fatto dagli arabi comportò un restyling della squadra, permettendole di tornare in vetta al calcio inglese. L’Abu Dhabi UG successivamente acquistò altre tre squadre in giro per il globo, aprendo un vero e proprio mercato delle squadre.

Molti altri emiri e principi hanno seguirono l’esempio di Mansur bin Zayd Al Nahyan, presidente del ADUG, e iniziarono a comprare squadre. Il capo di Stato del Qatar, l’emiro Tamim bin Hamad al-Thani, comprò il PSG, squadra parigina priva di storia, rendendola praticamente l’unica forza del campionato francese. L’emiro non si fermò davanti all’acquisto della squadra francese, ma, grazie alle ingenti somme di denaro che il suo paese può donare, è riuscito a far organizzare il mondiale del 2022 nel suo paese. Questo porterà a un mondiale giocato a novembre (per evidenti motivi climatici) e lo scombussolamento di tutti i calendari dei campionati nazionali. L’ultimo acquisto che il denaro è riuscito a fare è stato qualche mese fa, quando Mohammad bin Salman, principe ereditario saudita, attraverso il suo fondo ha acquistato il New Castle United. I piani del principe non sembrerebbero finiti; l’idea è di acquistare altre tre squadre, tra le quali anche l’italiana Inter.

I soldi provenienti da questi fondi hanno inesorabilmente modificato il calcio; sia sul mercato che sul campo. Dall’ingresso dei mega gruppi arabi il calciomercato è man mano diventato una bolla speculativa con prezzi esageratamente alti, poiché è stata iniettata in esso una quantità spropositata di denaro, proveniente dalle tasche degli emiri e non dal mercato interno. Emblematico è stato il passaggio di Neymar al PSG per quasi 200 milioni di euro, cifra che all’epoca (2017) era spropositata ma che oggi è tristemente normale.

La speranza nel romanticismo

Tutto questo ha spezzato quell’incantesimo che aveva fatto innamorare molti, compreso il sottoscritto, al calcio. L’esempio si può sempre ricavare dalla Premier League: quando si autoalimentava da sola attraverso i diritti televisivi e li divideva equamente, molte squadre di metà classifica riuscivano a fare campionati dove eccedevano le aspettative. Il caso più famoso è quello dei Blackburn Rovers che, come nel 1882, nel 1994 riuscirono a vincere il campionato, contro ogni aspettativa. Oggi, invece, exploit del genere ci sono, ma sono rari (si pensi alla grande vittoria del campionato del Leicester nel 2016), a causa del divario economico che si è creato tra le varie squadre e ai prezzi da capogiro del mercato.

La Superlega proposta da diverse squadre quest’anno, ma poi affossata, poteva essere una buona soluzione, se gestita in modo differente e se avesse coinvolto i campionati nazionali e la UEFA stessa. Un’altra questione spinosa è legata alla controversa figura di Mohammad bin Salman, che ora possiede una squadra e punta a comperarne altre tre. E’ capo di un paese che non brilla per diritti dei sudditi e il Qatar, per completare i preparativi per il mondiale, ha sfruttato, attraverso un’interpretazione singolare del sistema della Kafala, migliaia di lavoratori provenienti dal Sud Est asiatico.

«Il calcio è dei tifosi!», urlava uno slogan contro la proposta della Superlega. La triste verità è che il calcio lo è sempre meno. Le squadre guidate da gruppi arabi si trovano ogni anno a fare la voce grossa sul mercato, potendo garantire stipendi che le altre squadre solo sognano, rovinando così lo sport più amato al mondo. Gli unici che possono fare qualcosa sono FIFA e UEFA, ma sono attratte dalle “sirene arabe”, necessitando di denaro.

Mi piace pensare che, se agli “alti livelli” il denaro la fa da padrone, in fondo in fondo il romanticismo di questo sport non è morto. Le cenerentole esistono ancora: l’Atalanta da anni sta mostrando che anche in provincia si può vincere e convincere; l’anno scorso il Villareal, squadra di un paese da 50.000 abitanti, ha battuto in finale di Europa League la più blasonata Manchester United; quest’anno il West Ham United, squadra con un valore rosa da 354 milioni, sta lottando alla pari in campionato con il City degli sceicchi.

Alla fine il calcio, come in The English Game, è tornato a essere una lotta di classe tra “ricchi e poveri”. E sono convinto che, come in quel lontano 1882, i poveri torneranno a vincere nuovamente.

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Gabriele Porcedda

Sono laureato in Storia e Filosofia e in Politiche Europee ed Internazionali. Sto svolgendo un master in Middle Eastern Studies presso l’ASERI. Suono la chitarra e giocato a tennis. Sono un grande appassionato di storia, di fumetti e soprattutto di sport; più di quelli americani che di quelli nostrani.

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