La prima Rivoluzione Industriale
C’era una volta la rivoluzione industriale. Una delle tante. Diciamo la prima. Siamo a cavallo tra il 18esimo e il 19esimo secolo. Essa provoca varie reazioni nella classe operaia, tendenzialmente infastidita (per non dire imbestialita) dal progresso scientifico e tecnico che avanza. Compaiono nuovi macchinari, nuovi materiali e metodologie, che vengono visti come concreta minaccia al modus classico di lavorare. Ned Ludd, mitico capo collettivo degli operai inglesi, diviene simbolo di una resistenza fatta sostanzialmente di sabotaggi di macchinari. Raramente sono stati espressione «di una collera selvaggia […]; bisogna piuttosto vedervi delle azioni preparate, spesso integrate a un’autentica strategia, che testimoniano l’organizzazione e la lucidità operaia».1M. Guidetti (ed.), Storia d’Italia e d’Europa. L’Europa della borghesia, vol. 6, Jaca Book, Milano 1982, 330.
Gli operai luddisti, all’epoca, si ribellavano alle tecnologie dilaganti perché sentivano minacciate le proprie condizioni di vita, strettamente collegate alla possibilità di lavoro (e quindi di sostentamento).
Nuovi luddisti crescono
Anche oggi ci sono i luddisti. Si tratta non più di operai adulti, ma di giovani e di adolescenti, che provano ad allontanarsi da una vita governata dai social e dagli smartphone. Si chiama Luddite Club e nasce a New York per iniziativa di un gruppo di diciassettenni.2M. Fini, Il “Club dei luddisti” si sta riprendendo la propria vita, in Il Fatto quotidiano, 3 gennaio 2023. Si fa strada, nel loro “manifesto”, il principio di ecologia mentale.
E la biochimica conferma: non hanno mica tutti i torti. L’utilizzo prolungato dei social, con le attività di commento, sharing e like/dislike ad esso correlate, produce nel nostro organismo un neurotrasmettitore che si chiama dopamina, normalmente collegato alle esperienze di conferma/sconferma o di qualche genere di ricompensa.3F. Croci, Non riesci a staccarti dai social? La spiegazione è nella chimica. L’eccessiva produzione di dopamina genera una sorta di dipendenza da quella funzione di rispecchiamento che le attività social in qualche modo forniscono. Più ricorriamo ad essa, più ne abbiamo bisogno.
Di conseguenza, paradossalmente, vogliamo godere un po’ del nostro tempo libero usando lo smartphone, ma, a lungo andare, possiamo incorrere nella possibilità che ci occupiamo così quel tempo, che diviene decisamente poco libero.
Ma fermarsi alla chimica sarebbe riduttivo. Basti pensare alla difficoltà nel discernere le fake news, alla sottovalutazione delle competenze professionali, al ricorso spasmodico dei tutorial quale forma di accesso ai segreti della realtà (il sapere-come diviene pian piano la forma di conoscenze per antonomasia)…
Fuga mundi o riflessione costruttiva?
Ecco allora che il Luddite Club si propone una sorta di decrescita felice, di liberare il tempo, per il bene personale e collettivo. Non si tratta, quindi, di un tentativo proto-sindacale, per cercare di conservare un lavoro, ma di una strada per tentare di conservare la propria umanità, che viene percepita in qualche modo minacciata dalla pervasività delle tecnologie moderne.
Si tratta quindi di un gruppo di saggi illuminati? Sono degli isolati, tagliati dal mondo? Dobbiamo tutti divenire dei laudatores temporis acti e pensare a “quanto-si-stava-meglio-quando-non-avevamo-i-cellulari”? Non lo so, ma non credo. Sarebbe una fuga anacronistica e, in fin dei conti, frustrante e alienante. Forse si tratta, più semplicemente, di tornare a un senso dell’utilizzo dei beni che abbiamo, attraverso il confronto, alcune regole nella gestione della propria quotidianità, un po’ di sana autodisciplina.
Forse dobbiamo costruire un significato attorno e all’interno degli oggetti e delle tecnologie che utilizziamo. E magari questo significa anche interrogarci sulle terribili e grandiose potenzialità umane e su dove vogliamo dirigerle. Altrimenti rischiamo di diventarne un po’ schiavi.
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