Autostima: si può fare senza?
L’autostima è una delle componenti fondamentali della persona. Viene definita come «l’immagine affettiva di sé», cioè il rapporto tra «come ci vediamo» e «come ci sentiamo». Visto che ognuno di noi è, per se stesso, la persona con cui passa maggior tempo durante la giornata, azzardo a dire che è un rapporto estremamente importante.
Godere di una buona e solida autostima significa aver capitalizzato un sano magazzino di energie e di capacità di resilienza, utile per affrontare le difficoltà della vita.
Lo sappiamo benissimo: nel periodo scolastico e, più nello specifico, universitario, l’autostima viene messa a dura prova. Tutto il cursus accademico è scandito e definito da esami, cioè da momenti in cui lo studente è, letteralmente, giudicato. Per di più, quello attuale non è un periodo facilissimo, per quel che riguarda il mantenimento di una sana visione di sé.
Non ci sono ricette semplici e univoche per godere di una buona autostima, nonostante molti libri della pop-psichology promettano il contrario. È sicuramente utile, però, come una sorta di step zero, divenire consapevoli di alcune dinamiche distorte, che concorrono alla costruzione e al mantenimento di una fragile autostima.
Vogliamo offrire qui uno spazio per riflettere insieme e confrontarci, sulla base delle proprie esperienze, intuizioni e competenze, sui processi che costruiscono e consolidano o, al contrario, demoliscono, una sana percezione di sé. Chissà che anche gli studi non ne giovino.
Procederemo a puntate, pubblicando periodicamente alcuni piccoli spunti sul tema. Cominciamo oggi con un flash (parziale e non esaustivo) sul processo di sviluppo dell’autostima.
Vantarsi fa bene
Heinz Kohut, uno psicanalista vissuto a cavallo del XX secolo, sosteneva che la linea evolutiva del narcisismo è fondamentale nella persona umana. È importante, cioè, che la persona cresca con una sana autostima. A concorrere per un «Sé coeso» sono tre elementi: 1) specchiarsi nella stima degli altri, 2) fare qualcosa insieme agli altri, 3) idealizzare qualcuno come modello e fonte di ispirazione.
Esempio banale: il bambino nei confronti dei genitori. Essi devono dirgli «che bravo che sei stato!» (1), giocare e pasticciare insieme a lui (2) e lasciarsi idealizzare, stile «il mio papà è un supereroe!» (3). Se una di queste tre fonti sane di autostima viene a mancare in qualche modo, c’è il rischio di crescere con alcune «ferite narcisistiche», che la persona cercherà di curare e compensare attraverso dei rifornimenti affettivi irrealistici. In questo modo, una persona potrà continuamente cercare l’ammirazione degli altri (i narcisisti come li conosciamo tutti), oppure potrà sentirsi al sicuro solo quando fa qualcosa insieme a qualcun altro, e così via.
Quindi? Dobbiamo sfondare lo stereotipo più comune della psicologia e dire che è colpa sempre dei genitori? Ni. Chiaramente ogni persona è influenzata dal tipo di educazione e di relazione che ha instaurato con i caregiver, ma non ne è determinata. Inoltre, per Kohut queste tre «funzioni dell’Oggetto-Sé», cioè elementi nella relazione con le persone più significative, vivono non solo nel bambino piccolo, ma anche nella persona adulta. In altre parole, siamo noi stessi, anche ora, che possiamo valutare “cosa ci manca” a livello di autostima e provare a gestire le nostre relazioni di conseguenza.
Grande stima per chi cura questa rubrica!