Continuiamo la nostra piccola carrellata di riflessioni che riguardano il tema dell’autostima, soprattutto nell’ambito e nel mondo universitario.
Quando mi capitava di uscire da un esame andato male, avevo un pensiero che pulsava nella testo: «sono una nullità» (in realtà non pensavo «nullità», ma qualcos’altro di più volgare, facilmente intuibile). Questa tentazione è forte per chiunque, in molti contesti della vita. Si tratta, se ben ci pensiamo, di un errore di attribuzione: attribuiamo quello che percepiamo come fallimento a tutta la nostra persona.
Questo non è sostanzialmente mai vero, non c’è mai un giudizio che investe e comprende tutta la nostra persona. Possiamo dire «sono scarso in meccanica razionale», o «non capisco storia dell’arte», oppure «non mi sono preparato sufficientemente», «sono stato uno disgraziato nello studio», ma lasciare che il colpo all’autostima dilaghi in maniera diffusa è, sostanzialmente, irrealistico, cioè non corrispondente alla realtà.
Alcuni autori distinguono, a tal proposito, tra «autostima barometrica» e «autostima baseline». Mentre la prima è più specifica e legata a un preciso momento, la seconda delinea una valutazione di sé più generale e spalmata nel lungo tempo. Può essere una distinzione importante: il primo tipo di valutazione di sé è più dinamico e mutevole, mentre il secondo dovrebbe godere di maggiore stabilità.
Ma perché tendiamo a compiere questo errore di attribuzione? Probabilmente perché così è più facile.
Già, colpirci in toto non ci chiede la fatica psicologica di integrare elementi differenti e contraddittori: il fatto, ad esempio, che sono un bravo studente e, al tempo stesso, che stavolta l’esame è andato male. Sono elementi che possono sussistere, anche se sembrano contrari.
A noi le contraddizioni non piacciono. E nemmeno alla nostra testa. Per questo cerchiamo istintivamente di dire che solo una delle due affermazioni è vera: o sono un bravo studente, o l’esame è andato male (e quindi non sono un bravo studente). Questa divisione così netta affonda le sue radici nella tendenza a splittare, cioè a scindere in due la realtà. E’ qualcosa di naturale e umano: da molti studiosi viene indicato come il primissimo meccanismo di difesa che apprendiamo nella vita. Tuttavia, se vogliamo crescere, dobbiamo controllarlo, affettivamente e razionalmente, e cercare di affiancarvi altre dinamiche più realistiche e mature.
Soprattutto nel momento in cui sentiamo il bisogno di vivere meglio la nostra autostima.
Grazie Marco, riflessione interessante e anche utile. Aggiungerei che un meccanismo alternativo è quello di proiettare l’attribuzione causale del fallimento tutta all’esterno: “sono andato male perché il prof è una nullità”, per intenderci. Come dici tu, è esperienza comune che la verità stia quasi sempre nel mezzo di due opzioni estreme e apparentemente autoescludenti, ciononostante fatichiamo a coniugare le contraddizioni. Un allenamento a questa dialettica, sia in chiave individuale che in chiave sociale, è a mio parere quanto di più costruttivo ci sia nella crescita di un individuo
Giustissimo Gabriele. Sicuramente ci sarà una puntata di questa rubrica sul tipo di attribuzione proiettivo, cioè all’esterno. Concordo – ripeto – sul fatto che la dialettica della contraddizione è una palestra fondamentale per la crescita autentica ed equilibrata.