Spostarsi da uno Stato all’altro, per motivi che spaziano tra il più disimpegnato viaggio turistico alla più disperata migrazione in cerca di una vita dignitosa, è un diritto sancito, fra gli altri documenti, nella Dichiarazione universale dei diritti umani (articolo 13) e nella nostra Costituzione (articoli 10.3 e 35.4). Un diritto non ancora codificato è invece quello di cui hanno parlato diverse volte e soprattutto in occasione della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato gli ultimi tre papi: il diritto a non dover emigrare.
Sebbene l’accoglienza e il soccorso a stranieri e indigenti sia un pilastro della dottrina cristiana e di tanti ordinamenti politici, non si può trascurare il fatto che migrare, per molti, non è assolutamente una libertà, ma l’unica scelta attuabile per sperare in un futuro luminoso e non più tribolato. Ci si potrebbe chiedere se, in questo ambito, debba essere priorità dei governi degli Stati più politicamente ed economicamente stabili (nei quali accorre la maggior parte dei migranti) migliorare il sistema interno di accoglienza, o per lo meno tentare di porre i migranti stessi nella condizione di vivere il loro trasferimento come un effettivo diritto e non un obbligo, sostenendoli direttamente in patria.
Non è esclusa la possibilità di attuare contemporaneamente entrambe le soluzioni, come fra l’altro molti esecutivi già fanno. Forse una risposta interessante a questa e ad altre domande sul tema la può offrire un ragazzo, originario di Cuba e ora studente in Italia, che si è prestato a una nostra intervista.
Hai vissuto il tuo trasferimento come un’opportunità o come una costrizione?
Dipende. Da una parte mi sentivo costretto e volevo andarmene a causa dei tanti problemi che c’erano nel mio paese. Ero ad un punto – diciamo – di soffocamento. Inoltre la crisi migratoria nel mio paese si era aggravata e l’unica cosa di cui si parlava tra i miei coetanei era di come scappare all’estero, ma, d’altra parte, l’ho vista come un’opportunità. Infatti non tutti possono permettersi di partire avendo la possibilità di studiare in un’università europea, di imparare una nuova lingua in modo corretto, di incontrare altre persone, di mutare il proprio modo di vedere la vita, di cambiare la propria vita e anche di ottenere una laurea che ti aiuta a trovare un lavoro in qualsiasi altro Paese e con la quale si è in grado di soddisfare i propri obiettivi professionali, esigenze economiche, e poter così sostenere la propria famiglia e sentirsi realizzato… Insomma, infinite opportunità.
La realtà che hai riscontrato nel nostro Paese è uguale all’idea che avevi in mente prima di partire?
Dell’Italia sapevo solo che c’erano un Andrea Bocelli e una Laura Pausini e che si mangiavano tanta pasta e spaghetti. Invece sono un fan della cultura spagnola, del suo cibo e ovviamente della lingua visto che è la mia lingua madre. Il fatto che mi sia piaciuta tanto la Spagna e che l’Italia sia un Paese europeo è stato ciò che mi ha motivato a venire qui, anche se, come detto, non sapevo praticamente nulla, tanto meno la lingua. Non posso davvero fare un confronto con le mie aspettative riguardo alla realtà che ho trovato, semplicemente sono venuto a sapere com’era questo Paese e sto ancora imparando a conoscerlo. Solo una cosa mi ha colpito: vivere nel capitalismo italiano. Da colleghi e parenti vissuti negli USA mi è stato detto che il capitalismo lascia poco tempo libero, allenta i legami familiari e costringe a svolgere più lavori per mantenersi. Però mi sono reso conto che l’Italia non è solo questo; gli italiani dedicano del tempo alla loro famiglia, alla loro tranquillità, alle passeggiate con il cane, alle serate nei bar e nei parchi e alle chiacchere con gli amici, cose che mi piacciono molto e a cui mi sono ormai abituato.
Quanto è forte per te il desiderio di ritornare nella tua nazione?
Non ho davvero intenzione di tornare a vivere nel mio Paese, sono andato qualche volte a trovare la mia famiglia, ma ritorno sempre perché i miei obiettivi sono finire la mia laurea, trovare un lavoro qui, fare una vita stabile e poi portare la mia famiglia con me e che possano godere di tutti i benefici del mio sacrificio e dei miei successi, oltre ai vantaggi offerti da questo paese.
Quanto possono risultare d’aiuto al loro Paese di origine i migranti che vi ritornano con le nuove competenze acquisite all’estero?
Sarebbe una cosa importante e di grande interesse per i Paesi se i loro giovani venissero formati all’estero e tornassero ad applicare le conoscenze acquisite, cosa che potrebbe portare molti cambiamenti positivi e miglioramenti in vari settori, perché non solo imparano conoscenze professionali, ma il modo di pensare, di vedere la vita, cambia il modo di vivere, un maggior rispetto, valorizzare di più le cose e i processi, e tutto questo potrebbe dare un valore aggiunto a quel paese di origine di quel giovane che si è formato all’estero.
Ti lancio una provocazione. “Aiutiamoli a casa loro”: a cosa ti fa pensare questo slogan che si sente spesso da più parti?
Se non sbaglio, nell’interpretare la frase questo significa “aiutare gli altri nel loro paese senza che debbano emigrare”, questo sarebbe un argomento di dibattito perché molte persone come me preferiscono ricevere quell’aiuto direttamente all’estero, non rimanendo nel loro paese, poiché partendo possono ricercare un futuro migliore; ma altre sono stabili nei loro paesi e vorrebbero ricevere, ad esempio, qualche miglioramento professionale, o un altro tipo di aiuto dato direttamente nel loro paese natale, senza dover prendere un aereo e partire per un’avventura verso l’ignoto nella quale possono succedere molte cose. Ecco perché dico che dipende dalle aspettative, i bisogni e i desideri di ciascuno.
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