Studi antichi o studi “all’antica”?
Ammettiamolo: in una società come la nostra, che si slancia prepotentemente verso un futuro sempre più digitale, a volte sembra che conoscere Omero e Italo Svevo serva giusto per ottenere la laurea in Trivial Pursuit. Chi, invece, li studia per passione – magari puntando alla laurea vera, con tanto di pergamena e corona d’alloro – deve mettere in conto di investire tempo ed energie su qualcosa che tutti, ormai, etichettano come “roba d’altri tempi”.
È una consapevolezza, questa, che accompagna già gli studenti del classico, mentre prenotano l’ennesimo appuntamento dall’oculista e si promettono di bruciare il Rocci dopo la maturità. Ogni tanto investe anche gli universitari di Lettere, che escono storditi da due ore di lezione sul “tetrametro trocaico catalettico”. E, giusto qualche giorno fa, è tornata a suscitare un acceso dibattito mediatico, dopo che la Howard University di Washington ha confermato l’intenzione di chiudere il suo rinomato Dipartimento di studi classici dal prossimo autunno.
Un caso emblematico
Una notizia che ha attraversato l’oceano, suscitando scalpore e indignazione nella comunità accademica. Innanzitutto, per il fatto che – ad oggi – la Howard fosse l’unica università storicamente afroamericana a offrire un percorso di studi classici. L’eccezionalità e la qualità della sua offerta formativa, tuttavia, non sono bastate per salvare il dipartimento: dopo tre anni di tagli e di riduzioni dei corsi, la decisione finale è stata quella di dare priorità agli altri dipartimenti dell’università, investendo sulla ricerca scientifica.
In secondo luogo, per la presunta motivazione che starebbe dietro a questa scelta. Accanto alla dichiarazione ufficiale, infatti, ha cominciato a circolare una seconda ipotesi per la chiusura, tra l’altro molto curiosa: le grandi opere greche e latine sarebbero da mettere al bando perché portatrici di valori delle società antiche, patriarcali e schiaviste. Eppure, che gli autori classici non siano proprio politically correct è risaputo da chi è del mestiere: si tratta di riconoscere che ogni opera riflette il proprio contesto socio-culturale, al di là di ogni moralismo o facile giudizio.
Pandemia: tutti i poeti porta via
Ed è così che il caso della Howard University fornisce l’ennesimo, attualissimo pretesto per andare al cuore del problema e trovare una comoda sedia tra gli spalti, da cui osservare il sapere umanistico perdere sempre più terreno nella gara con le discipline scientifiche.
Se poi consideriamo la questione alla luce della pandemia che stiamo attraversando, nessuno contesterebbe mai l’importanza degli studi di medicina, infermieristica, psicologia o delle professioni sanitarie. Per non parlare della necessità di avere buoni ingegneri, economisti, giuristi, e ancora tanti altri che contribuiscono, ognuno con le proprie competenze, a porre le fondamenta del futuro.
Ma che contributo si chiederà, un domani, a chi ancora studia Euripide e Lucrezio, Dante e Cavalcanti? Cosa aspettarsi da chi dedica la vita a quegli «studi inutili», come li aveva chiamati Gramsci, che «non hanno scopi pratici immediati»? Giusto qualche anno fa si parlava del percorso di studi umanistici come di un «conto salato» per la società: e quella attuale, ferita e azzoppata come non mai, può davvero permettersi questo lusso?
Palla al centro
Soluzioni facili e posizioni concilianti non se ne trovano, e forse è bene così. A voler salvare o condannare senza adeguato processo gli insegnamenti umanistici, rischieremmo di cadere nei due prevedibili, estremi schieramenti: quello di chi introdurrebbe il sanscrito tra le materie delle superiori, e di chi invece considera il Python come l’unico linguaggio poetico del nostro tempo. Ma la vera sfida, al contrario, è proprio quella di riaprire pazientemente una finestra di dialogo tra scienza e poesia, tra “anatomia patologica” e “archeologia greca”, perché di entrambi i percorsi si riconosca l’utilità e se ne apprezzi la ricchezza. Come a ogni cambio epocale nella storia, così anche oggi è da riscoprire il ruolo delle arti, della letteratura, dichiaratamente “inutili”, non per questo in-efficaci, o in-attuali.
Ne era convinto Dostoevskij, che, nei suoi Demoni, ci consegna pagine straordinarie e brucianti: «Gente limitata, che cosa vi manca per poter capire? […] La scienza stessa non si reggerà neanche un minuto senza la bellezza, lo sapete, questo, voi che ridete? Non inventerete nemmeno un chiodo!». Tagliente, ma bellissima e consolante assunzione, che ricorda che il mondo non lo salveranno (solo) vaccini, normative e big data, ma una fedele ricerca e uno sguardo attento alla bellezza quotidiana, da tradurre in canto e opera d’arte. Secoli di artisti e poeti sono ancora disponibili, dietro la cattedra, a spiegarci come si fa: forse vale la pena di prestare attenzione, anche solo per la prossima ora.
Per approfondire il dibattito sulla Howard University
https://www.washingtonpost.com/education/2021/04/20/howard-university-classics-department-dissolve/
https://www.nytimes.com/2021/04/25/us/howard-classics-department.html
https://theweek.com/articles/965573/cancel-classics
http://www.provost.howard.edu/AAPP/Academic_Prioritization_Report_11_16_20_2_FINAL.pdf
Condivido con il precedente commentatore: articolo scritto benissimo. C’è attualità, ci sono spunti di riflessione, citazioni, considerazioni; tutto in un notevole quanto ben riuscito esercizio di sintesi. Spero in altre riflessioni sul tema, rabbrividendo al pensiero di ciò che, altrettanto sinteticamente, dice Galimberti: “si lavora come l’algoritmo stabilisce, si procede come l’algoritmo comanda”.
[…] ruota del carro, soprattutto dal punto di vista lavorativo – ma rinviamo a un nostro recente articolo, che si pone proprio in questa […]
E’ un articolo scritto benissimo. Se l’utilitarismo che connota la nostra società uccidesse definitivamente l’amore per la bellezza, tutti noi perderemmo la capacità di dare senso alla nostra vita e, soprattutto, di viverla con gioia. Già Platone aveva le idee chiare: l’assoluto, Dio, è bellezza; la conoscenza si basa sullo slancio verso il bello.
Gli studi umanistici sono una finestra aperta sulla ricerca del bello nella storia. Una persona che fosse solo ingegnere, o solo medico, o solo casalinga, o solo notaio, insomma, solo il suo mestiere, sarebbe certamente una persona spiritualmente povera. Ricordo che uno dei miei figli, dopo avere frequentato il liceo classico ed essersi poi brillantemente laureato in ingegneria, ebbe a dire di essere molto contento delle sue scelte perchè, se non avesse fatto il classico non avrebbe conosciuto le tragedie greche.