Stamattina, nel (fallito) tentativo di arginare lo tsunami che è diventata camera mia, mi è capitato fra le mani il mio paio di scarpe. Ancora incrostate di fango dall’ultima scampagnata di febbraio, da allora le avevo dimenticate sotto il letto, tra calzini spaiati e polvere. Comprensibile, dato che siamo già alla terza settimana della dittatura di ciabatte e tutone.
Mi sono messa a rimaneggiarle, a giocherellarci un po’, e ho cominciato a pensare: le scarpe ci portano davvero ovunque, frettolose insieme a noi mentre solchiamo le strade abituali, o quando scendiamo a rotta di collo i gradini dell’università (per non perdere il treno), o mentre ci affanniamo per i sentieri in montagna. Ci seguono nella giostra dei giri quotidiani, dei fiatoni e delle pedalate. Nei piccoli passi di tutti i giorni.
Oggi la musica è ben diversa, a malapena si fa il tragitto cucina-salotto, ci si trascina annoiati. Ora queste scarpe sono relegate nell’angolino, insieme al desiderio di uscire, di gironzolare di nuovo per le strade, di pestarci i piedi, come potevamo fare solo una manciata di giorni fa.
Ma proprio questo insieme di queste suole, tessuto e lacci possono darci una nuova, liberante prospettiva. Loro, e qualche parola di poeta.
“Così si fermò
nelle sue scarpe
e si meravigliò
si meravigliò
si fermò nelle sue
scarpe e si meravigliò” (John Keats)
Stanate in un bellissimo articolo di Alessandro d’Avenia, queste parole mi sono tornate davanti agli occhi insieme a quel paio di scarpe in disuso. Keats sta facendo riferimento a un giovane, girovago e conoscitore di terre nuove, a cui capita, a un certo punto, di “fermarsi nelle sue scarpe”. E se ne meraviglia, come è capitato a me quando ieri ho riesumato quella fotografia sgualcita sotto chili di libri, o quando ho scoperto che tutte le mattine, fra le tazze di the della cucina, i miei guardano la messa insieme. Esempi di piccole, silenziose piantine che crescono nella terra che calpesto tutti i giorni, in cui mi fermo sempre troppo poco. E ora che mi ritrovo scalzata delle mie scarpe, privata delle mie strade e con i soli “nudi” piedi, non mi resta che fermarmi un po’ nella vita che c’è, e imparare a stanarne la bellezza nascosta.
Forse allora è questo che possiamo imparare a fare in questi giorni, più che rimpiangere quei giri e quelle scarpe (che, prima o poi, torneranno quotidiani). Potremmo provare a diventare camminatori un po’ più esperti di queste quattro mura di casa, ricercatori di meraviglia, autori di versi nuovi, anche fatti coi piedi.
è stata la mia frase preferita. Eleonora sa scrivere con delicatezza, sa darti un fiore senza staccarlo da terra e sa indicarti la strada senza le dita.