Eccoci a raccogliere nuovamente il filo dantesco che si era perso nella matassa di esperienze estive e (più o meno) meritate pause dalla lettura. E se si riparte, non può che essere perché, ancora una volta, lo studio di Dante ci offre una via per passeggiare lungo i suggestivi vicoli medioevali, dove ha vissuto e camminato, per trovarvi una parola per il presente, dove tutt’ora vive e cammina.
Nell’aldilà con mente, anima e naso anduco
Un tratto della Commedia che ha sempre affascinato la critica, fino a diventarne un elemento quasi di ovvietà, è la centralità assoluta – per non dire la “fissazione” – di Dante per il corpo dell’uomo. La Commedia pullula di passaggi in cui Dante incide nei suoi versi i dettagli dei corpi scarnificati dei dannati, che hanno perso la loro sembianza umana sfigurati della rabbia e del dolore (in certe occasioni, Dante dimostra una notevole conoscenza del sapere medico e di specifiche sintomatologie). Troviamo poi anime che continuano a portare il segno delle ferite inferte nella vita terrena, usandole come carta di identità per rivelarsi a Dante: è il caso di Manfredi, di cui il poeta appunta l’indelebile fascino e regalità mentre mostra il passaggio della lama ancora visibile nel suo petto. Ancora, e forse più mirabile, è la trovata di Dante per rappresentare i corpi dei beati nelle sfere celesti: sono impregnati da un’intensa luce, dove i tratti del volto quasi si nascondo, e che si fa ancora più viva quando i beati gioiscono e sorridono al pellegrino.
Insomma, non si può dire che Dante non fosse uomo capace di concretezza (quando voleva): quello che mette in atto è una rivoluzione per il suo tempo, nel voler raffigurare un aldilà che non solo accetta, ma arriva a fondarsi completamente sui corpi, illustri o modesti, anonimi o teneramente riconosciuti. E in questa rivoluzione Dante è il primo che “ci mette la faccia”, portandosi dietro proprio corpo mortale lungo tutto il suo viaggio (tra l’altro, proprio per questo motivo, provocherà il chiacchiericcio tra le stesse anime, in un gossip antesignano). Tutto questo rompe con una tradizione filosofica classica, i cui strascichi rimangono anche in una certa sensibilità medioevale: quella per cui il corpo fosse del tutto secondario, quando non dannosissimo ostacolo, all’anima nobile, pura ed eterna. Questo “bodyshaming” (letteralmente: vergogna per il corpo, proprio o altrui) scarnifica l’uomo, gli toglie carne e identità, lo vorrebbe piuttosto angelo etereo, e comunque malriuscito: è proprio questo che Dante rigetta, per dire invece che la sua visione di Dio – e la sua visione di uomo – o passa dalla ciccia, oppure non è.
La mamma è sempre la mamma
C’è un passo tra tutti, di incredibile bellezza, in cui si mostra tutto l’amore rinnovato per il corpo, misto di terra e di cielo. Al canto XIV del Paradiso, al cospetto delle «sempiterne fiamme» dei beati, che sono un tutt’uno con la luce, Dante ne riesce a leggere l’incredibile nostalgia per i loro corpi terreni, a cui non vedono l’ora di ricongiungersi. Il motivo? «Forse non pur per lor, ma per le mamme / per li padri e per li altri che fuor cari». Hanno desiderio di quel corpo che li rende unici, riconoscibili, con i tratti in cui sono stati amati dai loro cari…soprattutto dalle mamme. Corpi che, prima di sapere di eterno, sanno di abbraccio, di cura, di affetto di cui persino nel più perfetto dei cieli si ha nostalgia.
In barba al bodyshaming.
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