Michele è uno di quegli amici che ha sempre la battuta pronta e una buona storia da raccontare. Tra le tante che abbiamo condiviso durante il servizio alla GMG, c’è quella del suo lavoro – che è insieme missione – di educatore dell’oratorio della Beata Vergine Addolorata di San Siro. È una storia di pace possibile, che di questi tempi ha un’eco ancora più preziosa e urgente. Ce ne mettiamo in ascolto.
San Siro: un nome che a tutti richiama l’iconico stadio, ma che è molto di più. Com’è il quartiere “fuori dai riflettori”?
Anche io, fino a qualche anno fa, ero tra quelli che collegavano subito San Siro ai concerti e al calcio. Poi, però, ho avuto modo di scoprirne una faccia diversa. Quello di San Siro è un quartiere periferico (pur non distando molto dal centro di Milano) in cui coesistono “due anime”: a dividerle è la linea del tram 16, spartiacque tra l’anima ricca del quartiere, con le sue ville costose e i suoi celebri residenti, e l’anima “pop”, in cui vivono più di 13.000 abitanti in un affollamento di case popolari. La differenza è abissale. Da questo “lato” del quartiere si combatte contro un’alta dispersione scolastica e sociale, in cui la strada è cattiva maestra, e diverse situazioni di abusivismo. Allo stesso tempo, è anche una delle zone più giovani di Milano, con una presenza elevatissima di adolescenti di diversa nazionalità (ne sono censite addirittura 85). La grande maggior parte è musulmana e arabofona: mi colpiva molto, quando sono arrivato, la presenza di numerose scritte in arabo nel quartiere, che tradiscono una realtà complessa e, al tempo stesso, unica.
Il vostro “progetto Villaggio” è legato all’oratorio B.V.A. del quartiere, ma si rivolge sia ai giovani cristiani che musulmani: da dove partire?
Fin dagli inizi del progetto, la sfida è stata quella di accompagnare i ragazzi del quartiere, cristiani e musulmani, prima di tutto a conoscersi, diventando custodi l’uno della fede dell’altro e riscoprendosi come un dono reciproco. Da qui nasce quello che, per definizione tecnica, è il nostro “oratorio cristiano con apertura alla fede musulmana”, che oggi offre soprattutto ai preadolescenti un’occasione di incontro, di fede e di dialogo. Il “progetto Villaggio”, tra le sue tante proposte, accoglie per tre giorni a settimana una cinquantina di ragazzi per alcuni pomeriggi di studio: prima di iniziare si racconta una “Storia di riscatto” in cui sono i ragazzi stessi, a turno, a ricordare le storie di tante personalità famose che, da una condizione di svantaggio, hanno realizzato il proprio futuro e l’hanno messo a servizio della propria comunità. È un itinerario di vita e di speranza verso cui incoraggiamo i ragazzi. Si continua con lo studio e, in alcuni pomeriggi, con dei laboratori sportivi e manuali. È però di giovedì che si realizza il “cuore” del progetto: tutti i ragazzi accolti, cristiani e musulmani, si riuniscono con le proprie guide e insieme, ciascuno secondo la propria fede, condividono un momento di gioco e di catechesi. Il nostro è forse il primo oratorio con questa doppia preghiera, che continua in diverso modo anche nelle attività estive.
Un dialogo che si costruisce nel tempo, e soprattutto fianco a fianco dei ragazzi e delle loro famiglie. Che risonanza sta avendo questo vostro progetto nella vita quartiere?
Il nostro obiettivo è costruire pace in un quartiere delicato, in cui disordini di tipo fondamentalistico nascerebbero facilmente, se ognuno portasse avanti una “fede fai-da-te”. Qui, invece, non si tratta di smentire l’identità di alcuni a favore degli altri, ma di costruire vie di conoscenza e di reciproca custodia. Ci sono due iniziative, in particolare, che coinvolgono tutto il quartiere. La prima è “La nascita del Principe della pace”: tutto il quartiere è chiamato a rapporto nella piazza del Quadrilatero attorno al presepe vivente, in cui si affiancano come “attori” famiglie musulmane e famiglie cristiane. L’altra è Ifṭār, l’interruzione del digiuno del Ramadan, che ospitiamo in oratorio: al tramonto si tiene una preghiera che coinvolge nello stesso momento uomini musulmani, donne musulmane e cristiani. Segue una grande cena conviviale con una festa di colori, sapori e odori. Quella a cui assistiamo non è un’arabizzazione, come qualcuno l’ha definita, ma un atto di pace e di grandissima civiltà, in cui ciascuno si prende cura ed è preso a cuore dall’altro.
Avere una mente e un cuore aperti chiede fatica, ma è l’unica via per un incontro autentico. In questo tempo, in cui si sospira la pace, quali sono i passi concreti e possibili per costruirla, a partire dalla vostra esperienza?
Direi, prima di tutto, la conoscenza: tante volte si parla e ci si schiera su qualcosa di cui si è ignoranti. In tanti criticano la fede musulmana senza conoscerla (e, forse, senza conoscere nemmeno la propria). Potersi incontrare in un clima di pace e comunità è ancora più utile e stimolante. Questo è possibile a San Siro e ovunque. Noi lo sperimentiamo ogni giorno.
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