Dallas Jenkins, di fronte alla telecamera, sfoggia un gran sorriso e una maglietta dove si legge chiara la scritta «Get used to different», «Abìtuati al diverso»: slogan d’impatto, non c’è che dire, per il lancio di The Chosen, la nuova serie tv americana di cui è il regista. Ma, andando avanti con l’intervista, rilasciata all’inizio della prima stagione, si diventa inevitabilmente sospettosi di questo «diverso» su cui tanto insiste, quando scopre le carte sul tema della serie: la vita di Gesù. Ora, già mettersi nell’atteggiamento di ricevere qualcosa di innovativo richiede una buona dose di fiducia, ma diventa una questione estremamente delicata quando si entra in ambito di fede. Cos’è la diversità che propone questa serie tv, al mondo dei credenti e non? E soprattutto, ci si può fidare?
Anche per i più scrupolosi, non c’è da temere che The Chosen nasconda qualcosa in contraddizione con la Chiesa, né nelle sue intenzioni, né nella sua realizzazione. Dallas e gli altri ideatori del progetto si premurano di sottolinearlo prima di ogni episodio e di ribadirlo nei numerosi video su YouTube: nel making della serie, la fedeltà al testo sacro è punto di partenza imprescindibile e il pubblico non dovrà temere scelte audaci, in questo senso. Si tratta, piuttosto, della sfida, appassionante e difficile, di voler offrire un’immagine di Gesù “rinnovata”, ossia vitale, divina e anche straordinariamente umana, di un Gesù dalle mani callose, concreto, quotidiano. Perfino scherzoso. Autentico. Insomma, ai molti che sono ancora fermi alle icone bizantine e santini polverosi, Jenkins lancia una vera e propria provocazione: perché non riconoscere in Gesù un personaggio realmente interessante e provare a farlo arrivare a tutti?
Prima di tutto, è essenziale comprendere che non ci troviamo davanti a un documentario sui Vangeli, che voglia risparmiare al pubblico credente la fatica di leggerseli. Per quanto fedele al testo biblico, The Chosen vuole esserne una narrazione, cioè vuole suscitare curiosità e un desiderio di maggiore approfondimento da parte del pubblico, e da questo punto di vista ci sta riuscendo alla grande. In più, proprio perché è una narrazione, si può prendere la libertà di immaginare i dubbi, le speranze, le ferite e le fatiche dei personaggi e dei discepoli prima e dopo l’incontro con il Maestro: se questi aspetti sono spesso fatti passare sotto silenzio dal testo evangelico, ora vengono proposti in una luce nuova e con un’indagine psicologica davvero affascinante, in certi casi.
Risultato? Improvvisamente si comprende un po’ meglio Matteo, esattore delle tasse, ricco di tutto e povero di affetti, o si è solidali con Pietro, dalla testa calda e dal cuore grande, con tutti i suoi problemi. Dove la serie tv osa immaginare, si nasconde qualche spunto davvero prezioso per scavare nell’umanità dei personaggi del Vangelo.
Ma non mancano anche i punti deboli, più o meno eclatanti: dallo zainetto improbabile che hanno messo al personaggio di Gesù, più vicino a uno zainetto Hershell che a una sacca dell’epoca, alle vistose imprecisioni dal punto di vista storico (non si sono mai visti Romani così accomodanti). Ma forse quello che maggiormente ostacola una diffusione ampia di The Chosen fuori dai confini americani è il fatto che rispecchi una sensibilità che, in fondo, non ci appartiene. La tradizione religiosa occidentale, per certi versi più cauta e composta di quella americana, forse non è ancora pronta a condividere questo tipo di approccio al testo sacro, questo «diverso» di cui parla Dallas, per quanto possa, piano piano, imparare a dialogarci. Alcune intuizioni sono universali e preziose (quanto fa bene riscoprire gli aspetti più quotidiani e concreti di quei personaggi), altre rischiano di diventare controproducenti (l’uscita di scena, nell’ultimo episodio, di Gesù e dei dodici a mo’ di gangster della Galilea). Come per ogni cosa, diversità può essere opportunità di crescita, per mettersi in discussione, anche – perché no? – in campo di fede: basta avere un cuore aperto e disposto a trarre da tutto il meglio, con uno sguardo critico e, allo stesso tempo, pieno di fiducia.
Ho visto il primo capitolo, solo posso dire che non mi ha piaciuto
Ho visto soltanto i primi episodi della prima stagione, ma mi sta piacendo questo abituarmi al diverso. Si stanno moltiplicando le aspettative che vedono non vanno deluse. La bellezza più luminosa è quella dei personaggi, Gesù fra loro, i quali ben si incastonano nell’intreccio romanzato della storia. Grazie a Eleonora per le sue preziose considerazioni
Molto ben scritto, complimenti per il tuo stile. Fa venire voglia di dare un’occhiata alla serie; mi ha incuriosito. Credo che l’immagine rinnovata a cui fai cenno sia più “appetibile” e spendibile del tradizionale cliché di un Gesù cinematografico alla Franco Zeffirelli, improbabilmente biondo e con gli occhi azzurri, così come più generalmente di una iconografia classica legata ad un concetto di Chiesa statico, talvolta, a torto o a ragione, pregiudicato, quando non compromesso. In The Passion, Gibson umanizza Gesù nella cruda realtà della sofferenza fisica del calvario, ma non riesce ad andare oltre. Il carisma, i valori, devono trovare nuove forme di comunicazione, pena il rischio di perderne la memoria e quindi il potenziale impatto interiore prima, sociale poi. La modalità di comunicare, mai come oggi, non può essere scissa dal messaggio; scindere vuol dire perdere capra e cavoli.
Come osa spuntare sul nome del grande Franco Zefferilli. Lui si che era un genio del cinema. Questo regista americano non é nessuno in confronto. Ha solo avuto una fortuna sfacciata solo perché é statunitense, ricco sfondato e ha usato YouTube e altri social network
Ho visto la sua miniserie su Gesù
Non c’è niente di fedele al racconto biblico originale
Solo una scusa per raccontare Gesù in modo inventato
Puoi dare più dettagli in merito?