Il termine volontariato deriva dal latino voluntas, che significa volontà ed esprime un’azione o una prestazione gratuita, conforme alla volontà – appunto – di chi la mette in atto e generata da un impulso interiore.
Generalmente questo impulso che spinge il volontario a dedicare parte della propria vita ad un servizio al prossimo deriva dalla volontà «di far del bene». Un po’ generico, ma sicuramente nobile!
I bisogni nella nostra società, nelle città in cui viviamo, nel piccolo paese e a volte persino nei vicoli di un quartiere, sono quanto mai vari e numerosi. Perché allora, se si può fare tanto bene qui, vicino a casa, nasce l’impulso di spendersi in un volontariato all’estero, magari dall’altra parte del mondo? Non voglio fare la guastafeste, ma a volte fa solo più «figo».
La questione dell’etimologia è importante perché credo sia essenziale aver chiaro il motivo per cui si decide di partire, definire chiaramente quale sia la propria volontà, quell’impulso interiore che ci spinge ad allontanarci dai bisogni vicini per cercare di soddisfare quelli lontani.
Spesso si incontrano volontari all’estero che scappano dalla propria vita, dalle difficoltà diventate insopportabili a casa, credendo che queste diventino più tollerabili se lontani; si lasciano alle spalle lutti o grandi delusioni che tolgono il respiro, pensando che la distanza allevi il dolore; fuggono dalla noia e dall’incapacità di trovare il proprio posto e la propria dimensione in una società in cui non si sentono accettati e che sentono lontana.
Nonostante il cambiare aria possa effettivamente giovare allo spirito, il rischio, tuttavia, è quello di lasciarsi alle spalle questioni irrisolte che poi torneranno, riemergeranno con gli interessi, al ritorno. Questa, comunque, è una dimensione personale e, giustamente, ognuno può gestire le proprie scelte e disporre della propria vita a piacimento. Non è tutto qui però. Finché, infatti, si mette a repentaglio la propria serenità, possiamo dire che non si discute. Se invece a farne le spese sono coloro che teoricamente dovremmo aiutare, la questione è alquanto differente.
Quando si arriva in un Paese lontano, si entra in un mondo diverso, in una cultura e una storia di un popolo che non conosciamo, che non ci appartiene, ma che, soprattutto, spesso non capiamo! Questo richiede estrema umiltà, grande rispetto ed un solido equilibrio interiore.
Quando arriviamo in un Paese lontano, noi generalmente siamo i «ricchi benefattori», nessuno ci conosce, siamo osservati speciali, quasi come degli extraterrestri. Entriamo a gamba tesa, anche senza volerlo, in un ecosistema che fino a quel momento ha vissuto senza di noi. L’errore più grande è quello di pensare di poter fare il buono o cattivo tempo perché siamo noi a dettare le regole del gioco, siamo noi a dire quello che è giusto e quanto è sbagliato nelle persone del luogo o in quello che fanno: in fondo, siamo noi ad avere i soldi e ad essere la civiltà progredita (anche se avrei diverse critiche da fare a quello che noi chiamiamo progresso, considerate le sue conseguenze sull’uomo e sulla natura).
La lontananza da casa, le diverse modalità del vivere sociale, l’ambiente così differente da quello a cui siamo abituati destabilizzano e ci mettono in difficoltà, indipendentemente dalla nostra missione in quel luogo.
Per questo ci vuole un equilibrio interiore già prima della partenza, per potersi meglio adattare al contesto e riuscire in modo elastico e rispettoso a portare quanto di buono c’è dentro di noi e nelle nostre intenzioni.
Per questo occorre aver ben chiare le motivazioni che ci spingono ad allontanarci da casa: perché non siano fughe, ma vere e oneste intenzioni di portare del bene all’altro e non a sé stessi; perché non siano lo specchio di un neocolonialismo, che impone la propria eccentricità e le proprie visioni egocentriche, che non tengono in considerazione il contesto, la cultura e la storia di un popolo, ma permettano di essere aperti all’altro nelle sue difficoltà e nel suo percorso a noi ignoto; perché non siano una semplice applicazione del mandato che ci è stato affidato, ma riescano a modellarsi alle necessità e alle peculiarità locali senza chiudersi nella cecità dei paraocchi che vedono solo l’obiettivo, senza tener conto che «senza pane non si vive».
Dickens la chiamava “carità telescopica”, indicando come è più facile voler bene a quelli lontani piuttosto che alle persone vicine. Sono d’accordo che serva molto equilibri, come viene sottolineato nel pezzo di Eleonora. In qualunque direzione si esageri, c’è il rischio di prendere delle derive ideologiche. Alla fine, cioè, si rischia di arrivare al detto di Voltaire: “bisogna coltivare il proprio giardino”. Il discrimine tra indifferenza ed equilibrio di motivazioni interiori non è affatto semplice… Esistono delle regole per capirlo più facilmente?
Certamente vero quanto scrivi; ben argomentato. Per riprendere Voltaire.. il suo pensiero è fin troppo tranchant, ma non è forse così peregrino pensare che chi non ha coltivato il proprio è improbabile abbia la qualità per coltivare l’altrui, poi possono esserci casi eccezionali, si intende. Ho coordinato per anni una grossa associazione che si occupava di integrazione; tra le persone che nel percorso si sono proposte come volontarie, nella mia osservazione certamente incompleta e suscettibile di errore, una percentuale alta, forse più della metà, pareva alla ricerca del proprio “filo”, più che determinata a sbrogliare i nodi di quello dell’altro. Infine, comunque, minimizzando la nostra rilevanza e decentrando la nostra attenzione si può convenire che chiunque cerchi l’aiuto ricerca il bene, proprio o altrui; ma questo non fa differenza, sempre il bene è al centro del pensiero.
Condivido totalmente il tuo punto di vista sul volontariato all’estero. Spesso esperienza personale, talvolta tentativo di fuga da un disagio, non sempre utile a chi in teoria si avrebbe “missione” di aiutare. Non tutto oro e non tutto piombo, come qualsiasi cosa dell’umano. Mi hai rammentato una situazione di qualche anno fa: camminavo per le strade di Bologna con l’allora mia ragazza, volontaria internazionale e, assieme alla famiglia (cinque componenti, cinque automobili, casa su due piani con giardino, attività di impresa, etc..), molto impegnata in Angola, particolarmente. Incrociammo una persona la cui disabilità mi colpì, mi fece stare male. Glielo dissi, le dissi che quella sofferenza mi aveva intristito profondamente. La risposta di lei, fulminea ed eloquente: “A me no..!”.