C’era una volta un’intenzione
Lo scopo iniziale di questo articolo era raccontare due realtà di volontariato – in ospedale e in carcere – per giovani e universitari nella città di Trento. Si voleva portare giusto un paio di esempi di cosa voglia dire provare a fare del bene barcamenandosi tra la Ragion di Stato (le inevitabili e giuste restrizioni per contenere la diffusione della covid-19) e il genuino desiderio di fare qualcosa per gli altri.
Già, perché le nude e crude statistiche sui casi e sui tamponi, le cronache nere dell’economia e le terre promesse del vaccino e della zona gialla si rincorrono fin troppo nei nostri feed discover di Google, e sicuramente anche nelle nostre menti. In ogni caso, né nelle notizie che leggiamo dai nostri smartphone nè nei nostri pensieri c’è abbastanza spazio per quei 7 milioni di volontari che operano in Italia, linfa vitale per la nostra società. E’ vero che la covid-19 ha stimolato la nascita di molti “nuovi volontariati”, e di questo veniamo costantemente informati, ma le realtà già esistenti, proprio come ospedale e carcere, che fine hanno fatto?
Cambio di programma
Questo era lo scopo iniziale… ma poi?! Poi abbiamo avuto la necessità di ridimensionare i nostri obiettivi: la strada verso l’ospedale per chi aveva il desiderio di passare del tempo con gli anziani (attraverso delle videochiamate) si è in parte interrotta, quella di coloro che si erano resi disponibili a organizzare attività per i detenuti, sbarrata. E così anche il nostro articolo ha preso direzioni diverse, e ora vuol essere un fare eco alla voce di chi ha percepito, nell’assenza, il bisogno di essere presente.
Degli ospedali, purtroppo, in questo periodo si parla molto, così come della solitudine dei malati che non possono avere un contatto diretto con i propri cari. Il mondo delle carceri, in relazione alla diffusione della covid-19, è stato portato davanti agli occhi dell’opinione pubblica solo nel mese di marzo, grazie alle rivolte. Anche per questo la situazione delle carceri, e dei volontari che intorno a esse gravitano, è, secondo noi, davvero esemplare di cosa voglia dire vivere la pandemia ai margini della società, vivere sulla propria pelle una chiusura nella chiusura, che ha fatto di ciò che era un luogo poco accessibile un luogo impenetrabile, che ha trasformato un luogo in cui quasi nessuno voleva andare in un luogo in cui quasi nessuno può andare. Gran parte delle attività al suo interno, infatti, sono state sospese, così come è stato limitato l’ingresso dei volontari e la frequenza dei colloqui.
La situazione del carcere
Le attività dei volontari, tra cui anche quelle proposte dal gruppo di giovani e universitari, avevano lo scopo di occupare e scandire la giornata dei detenuti, di renderla meno monotona. Che esse siano pratiche o di riflessione è secondario: ciò che importa è trovare un modo per cucire il tempo, portando dentro al mondo del carcere ciò che sta fuori e nel futuro, gli affetti e il lavoro.
Tali progetti, come scuola, teatro, laboratori, ecc., sono strumenti attivi di rieducazione, peraltro completamente conformi a quello che dovrebbe essere il principale scopo del sistema carcerario. Il fatto che molti dei volontari non siano più potuti entrare nelle carceri ha fatto sì che ai detenuti venisse tolto quel momento di respiro, di contatto con il mondo esterno, di maggiore umanità, di cui, invece, c’è estremo bisogno.
L’attività di volontariato nella Casa circondariale di Trento proposta ai giovani e agli universitari non ha scopi di aiuto pratico, come invece hanno altre associazioni che operano in questo contesto, ma non per questo rinuncia a essere un modo per avvicinarsi a un luogo estremamente marginalizzato della (e, soprattutto, dalla) nostra società, per scrostarlo dalla patina dei pregiudizi, senza però scivolare in un atteggiamento buonista. Si conoscono i mondi, gli ambienti e le storie delle persone detenute, e, allo stesso tempo, si cerca di andare oltre il reato per incontrare l’umanità presente.
Le parole di una ragazza che partecipa al progetto di volontariato esprimono profondamente il drammatico binomio carcere-covid-19: «La grande carenza di relazioni, data dalla pandemia, in carcere si amplifica. La mancanza dei colloqui ha causato ulteriore solitudine e sofferenza alle persone detenute e ai loro familiari. Se le maglie di questa struttura non si allargano e non si ammorbidiscono almeno un po’ con la presenza costante dei volontari o almeno con la possibilità di mantenere vivi i rapporti con i familiari all’esterno, il grido di protesta avrà necessariamente il carattere della violenza, della forza e della costrizione. Questo è il linguaggio attraverso il quale il mondo del carcere comunica la propria insofferenza».
La società tutta sta soffrendo in questo momento e non avrebbe senso pensare di stilare delle graduatorie sul livello di penalizzazione di determinate categorie di persone. Altrettanto insensato, però, è dimenticarsi totalmente di chi non si dimentica delle fragilità: a costoro e al loro ruolo cruciale nella nostra società abbiamo provato a dare voce.
Aggiungi commento