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La palla e la bolla. Cosa succede in NBA?

Il razzismo in America è come la polvere nell’aria. Sembra invisibile — anche quando ti sta soffocando — fino a quando non lasci che entri il sole. È solo in quel momento che realizzi che è dappertutto. Fintanto che continuiamo a far splendere quella luce, avremo la possibilità di pulire ovunque si posi. Ma dobbiamo rimanere vigili, perché è ancora nell’aria.

(Los Angeles Times, Kareem Abdul – Jabbar)

La pallacanestro americana, che trova la sua massima espressione nell’NBA, è ad un passo dal riaprire il sipario dei parquet il 30 luglio, dopo un letargo forzato di 140 giorni. Infatti, era l’11 marzo quando Rudy Gobert, centro francese degli Utah Jazz, risultava positivo al Covid – 19, e la NBA annunciava la sospensione del campionato fino a data da destinarsi. Possiamo certamente dire che si sia trattato di uno stop dovuto ad una delle maggiori emergenze sanitarie che l’Uomo si sia mai trovato a fronteggiare, ma è anche il caso di dire che quella che avrà luogo fra circa un mese, sarà una ripartenza resa particolarmente complicata dal ripresentarsi di quell’emergenza etica costituita dal razzismo sistemico americano.

L’NBA non è nuova al confronto con questioni sociali ed etiche, anzi, ma la pandemia, il momento storico – politico in cui si trovano ora gli Stati Uniti e la particolare problematica che il brutale omicidio di George Floyd ha rimesso in luce, rendono lo scenario più complicato che mai, senza contare il fatto che, ad oggi, nell’NBA il 74% degli atleti è composto da People of colour. E così, storie di scontri pregressi tra il mondo politico e il mondo sportivo americano riaffiorano alla memoria di appassionati, giornalisti, direttori di associazioni sportive ma anche e soprattutto degli atleti stessi. Battaglie spesso condotte a suon di tweets, dichiarazioni pubbliche al limite, ma fatte anche di scelte sagge e coraggiose: la I Promise School costruita e aperta da LeBron James nel 2018, il ginocchio a terra di Colin Kaepernick durante l’inno nazionale (costato caro al giocatore di football), in segno di protesta, per citare alcuni dei più famosi. Il copione cambia ogni volta, a seconda della situazione, ma la questione di fondo è sempre che l’establishment politica di rado vede di buon occhio queste azioni o prese di posizione da parte degli atleti – considerate illegittime – dal fortissimo impatto sull’opinione pubblica. Il problema, che rappresenta la diretta conseguenza di tutto ciò, è che l’organizzazione sportiva di riferimento è costretta a prendere una posizione: rimarcare la distinzione degli ambiti di competenza, dissuadendo gli atleti dal sollevare critiche nei confronti delle istituzioni, o tutelare l’impegno politico e sociale dei propri giocatori.

La volontà della Lega di lasciare ai propri atleti la possibilità di esprimersi sulle questioni etiche e sociali, non è mai mancata, ma se questa tendenza ad esporsi portasse alcuni giocatori a chiedere all’NBA stessa di fermarsi? Spieghiamoci meglio: mentre, nelle scorse settimane, i managers e i proprietari delle squadre cercavano una soluzione per riprendere le partite il prima possibile, diverse decine di atleti si riunivano su Zoom per valutare se effettivamente riprendere a giocare oppure no. La ragione? La volontà di assicurare una rilevanza mediatica alle problematiche etiche e alle proteste, che la riapertura del campionato avrebbe sottratto, agendo da distrazione. Inoltre, i giocatori avrebbero avuto modo di partecipare in prima persona alle manifestazioni. La ripresa del campionato, per inciso, avverrà in un modo del tutto inusuale: le squadre, gli allenatori, gli staffs, saranno trasferiti a Orlando, in Florida, uno degli stati in cui il Coronavirus sta colpendo di più in assoluto, con 152.400 casi confermati e un picco di quasi 10.000 nuovi positivi registrati nella sola giornata di sabato 27 giugno. Per l’occasione il paese incantato di Disney World sarà allestito per ospitare la parte finale del campionato, in un’atmosfera presumibilmente surreale, rimarcata dal nomignolo the Bubble, la bolla, con cui in America si riferiscono al progetto dell’NBA.

All’esterno della Bubble, prevedono i giocatori, ci saranno intere comunità di afroamericani che avranno bisogno di enorme sostegno, psicologico ed economico: la chiusura di attività ritenute non essenziali dovuta al lockdown ha fatto perdere il lavoro a centinaia di afroamericani, le cui già generalmente precarie condizioni economiche hanno reso molto spesso impossibile dotarsi dei mezzi necessari per reggere al confronto con il Covid – 19 in sicurezza, almeno relativa. A tutto questo va aggiunta la necessità di avere delle risposte circa la violenza della polizia e di vedere delle concrete volontà di cambiamento rispetto a questo subdolo oppressore, il razzismo sistemico statunitense, il fondamento psicologico e ideologico del sereno sorriso di Derek Chauvin mentre tiene ben saldo il suo ginocchio sul collo di George Floyd. Di fronte a problematiche così gravi ed impellenti, il dubbio di giocatori come Kyrie Irving e Dwight Howard che la Bolla di Disney World assuma i tratti del giovenaliano panem et circences, diviene, oggettivamente, un’eventualità preoccupante.

Del resto, la pallacanestro è il lavoro degli atleti dell’NBA e chi può permettersi di rinunciare a lavorare è davvero in una posizione fortunata, che, anche in una delle organizzazioni sportive più ricche del mondo, non è alla portata di tutti: nell’enorme macchina dell’NBA ci sono persone che hanno un disperato bisogno di riprendere a lavorare stabilmente, e giocatori non ancora affermati, con contratti non garantiti, che necessitano di dimostrare il loro valore sul campo. Inoltre, da sempre, l’NBA testimonia all’America e al mondo intero che l’uguaglianza è garanzia di sincero agonismo, spettacolo e collaborazione proficua, e che se l’uguaglianza è possibile, allora è un dovere, e in quanto tale una missione, per la quale tutti devono dare il loro contributo. In definitiva, è certamente questa la direzione verso la quale dovrà muoversi l’NBA e lo sport americano in generale: accettare la sfida della testimonianza e della promozione di un nuovo, rivoluzionario contenuto educativo, un messaggio di cambiamento concreto e di lunga durata, capace di trasformare la rabbia e la frustrazione di intere comunità afroamericane in un progetto di riconciliazione con tutta la cittadinanza statunitense. In ogni caso, chi ha espresso il timore di essere parte di una pallacanestro che allontana dall’attenzione da riservare ai temi politici e sociali, ha costituito un altro, fondamentale passo verso il definitivo rifiuto del paradigma esplicitato, qualche anno fa, dalla giornalista filotrumpiana Laura Ingraham, “Shut up and dribble”.

L’azione educativa sarà, infine, fondamentale per garantire una giustizia sociale e un’uguaglianza concrete e durature, allo scopo di creare una nuova e solida cultura dell’inclusione, poiché – come stiamo imparando dalla pandemia – per risolvere un problema largamente diffuso e radicato, che sia esso un’emergenza sanitaria o etica, non basta un cerotto, ma serve un vaccino.

Alcuni link per approfondire e da cui l’articolo è stato ispirato:

https://sport.sky.it/nba/2020/05/31/george-floyd-kareem-abdul-jabbar-razzismo

https://www.ultimouomo.com/nba-orlando-irving

https://www.ultimouomo.com/george-floyd-nba-proteste

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Giovanni Bonfante

Sono uno studente di Filosofia dell'università di Trento, mi interesso di libri, cultura e sport, il tutto condito da un sacco di musica!

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