Matti da legare o inquieti da curare?
«E questi, tutto catarroso, cisposo e sporco, che vedi uscire dopo mezzanotte da uno studio, pensi forse che cerchi fra i libri come diventare migliore, più contento e più saggio? Niente affatto. Ci morirà». Così Montaigne, straordinario pensatore e filosofo di metà Cinquecento, sbeffeggia quel tipo di intellettuale che consuma la sua vita sui libri, fino a perdere di vista lo scopo della sua sete di conoscenza: migliorarsi, essere felice, conoscere la verità. Proprio quel Montaigne, che a 38 anni aveva abbandonato il suo incarico pubblico per dedicarsi, nell’intimità della sua biblioteca, alla filosofia, ci mostra il volto bifronte della cultura: incomprensibile follia o insostituibile cura.
Follia, per tutte le volte in cui un quadro o una statua si riducono a un elenco di dati da ingollare prima dell’esame. O per quei centotrenta versi di Lucrezio da saper leggere in metrica senza poterne apprezzare la bellezza. Follia di un insegnamento che tradisce il senso della ricerca, ovvero la ricerca di senso.
Cura, invece, per quelle volte in cui uno spettacolo teatrale inchioda il suo pubblico sulle sedie. O quando le note di una musica sciolgono quel macigno nel petto. Cura per ogni volta in cui gli studia humaniora rimangono fedeli alla loro vocazione: rendere “più umani” quelli che vi si dedicano, fornire una profondità di conoscenza e un più acuto sentire.
A quale faccia guardare, dunque? Se la prima, ormai, ci è divenuta familiare (per un’esperienza poco edificante della scuola, del percorso universitario…), la seconda ci può stimolare ad approfondire lo straordinario potere della cultura, nelle sue diverse forme, come conoscenza di sé che vada oltre le semplici nozioni.
Con un po’ di cultura la pillola va giù
E se può sembrare troppo ottimistica come prospettiva – una cultura capace di prendersi cura dell’uomo inquieto e in ricerca – la scienza dà (una volta tanto) man forte agli umanisti. Arte, cinema, teatro, musica, scrittura trovano sempre più spazio nelle pratiche psicologiche e psicoterapeutiche sotto il nome di “artiterapie”, in cui il tentativo è quello di «curare la persona dentro la malattia», stimolarne la creatività, aiutarla a dare un nome, un suono, un’espressione per comunicare sé stessa ed elaborare strategie di uscita.
Si accumulano, così, le testimonianze di laboratori di scrittura in carcere, progetti di musicoterapia con persone autistiche e disabili. La sfida, quindi, è quella di approfondire alcune di queste artiterapie in un piccolo itinerario culturale di qualche articolo, giusto perché degli umanisti non ci si può mai fidare troppo. Ma di una cultura che cura forse sì, perché ha sempre parlato da sé, e continua a farlo con forza.
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