Per chi non lo sapesse, la cena dei popoli è una cena alquanto scomoda e piuttosto indisponente per chi, alla prima esperienza, si aspettasse di gustare ricche porzioni di piatti etnici provenienti da tutto il mondo. Tutto il disagio è ampiamente ricompensato dall’unicità del messaggio. Funziona più o meno così.
Ci si trova in una sala abbastanza grande, con un numero di persone abbastanza alto, a dire il vero troppo alto, se si pensa che ognuno dovrebbe sedersi a mangiare le ricche porzioni che ci si attende. Questa sensazione si fa sempre più viva – e a ragione – quando si osserva l’esiguo numero di sedie disposte attorno all’unico tavolo centrale, che può ospitare tuttalpiù una decina di persone. Vengono distribuite delle carte d’identità, e in breve tempo ci si ritrova nei panni di un avvocato canadese o, nella peggiore delle ipotesi, di una giovane minatrice del terzo mondo.
A seconda della propria identità nuova di zecca, ci si siederà al tavolo centrale o si starà seduti per terra, oppure ancora si avrà la propria sedia ma nessun tavolo davanti. Arriva il momento della cena, i camerieri entrano con le ricche portate, che finiscono una dopo l’altra sul tavolo al centro della sala: davvero troppo per i pochi che vi stanno seduti. Quel che resta è un pentolone di riso in bianco, che i camerieri passano a distribuire in quantità sempre più esigue a tutti gli esclusi dal banchetto centrale. «Buon appetito»: questo è tutto ciò che viene detto, nel silenzio imbarazzato che governa la sala.
Nella mia cena dei popoli avevo il sedere per terra, e pochi chicchi di riso nel piatto, e vi assicuro che la cosa più naturale del mondo è quella di alzarti a prendere un po’ di quell’abbondanza che nessuno, tra quelli seduti al tavolo, ha il coraggio di rifiutarti. Nessuna domanda di stampo moralistico su ciò che si sta facendo, nessuna riflessione sulla legittimità della distribuzione delle pietanze; semplicemente hai fame, e a quel tavolo ci sta tanta di quella roba che potrebbe sfamare tutti i presenti nella sala.
Credo di essere stato fortunato, quella sera, a ritrovarmi a sedere per terra e affamato: ho ricevuto in cambio una prospettiva diversa dalla mia. Una prospettiva che avrei letto, certo, decine di volte sulle pagine di un giornale, o visto nelle immagini di un documentario, ma senza mai avvertirla alla bocca dello stomaco. Trovo che la cena dei popoli ci dia la possibilità di vedere in miniatura, da vicino, delle differenze che esistono nella società, dove sono invece spesso troppo grandi, troppo lontane, per essere visibili.
È una lezione che cerco di tenere sempre a mente, e riaffiora in questo periodo a proposito delle proteste negli Stati Uniti, dove chi è da troppo tempo vittima di una discriminazione altrettanto illegittima chiede che la propria voce sia ascoltata e che queste differenze vengano colmate una volta per tutte.
Ogni anno, negli Stati Uniti, i fondi per i dipartimenti di polizia aumentano, e l’uso della violenza nei confronti delle minoranze non è una novità: a me sembra tanto un modo per non voler sentire quella voce, per chiudersi gli occhi e approfittare del ricco banchetto che alcuni si trovano davanti dalla nascita.
Non sarebbe forse il caso di ascoltare quelle voci e impegnarsi a costruire un tavolo dove ognuno abbia un posto a sedere invece che abbassare gli occhi sul proprio piatto che straborda?
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